Talvolta saremmo attratti a tentare speculazioni sulle contrarie analogie; non a produrre acrobatiche elucubrazioni bensì un esercizio ironico – che so, alla maniera di Savinio o di Borges – in cui la dimostrazione del paradosso, come il concetto che non esiste nulla di più certo del caso, s’inverasse con un ragionamento logicamente inappuntabile eppure riconoscibilmente assurdo. Così si potrebbe dire con buona probabilità di essere creduti, che se Andrea Benini non detenesse una laurea d’ingegnere non avrebbe mai potuto diventare un pittore d’inclinazione fantastica; fatto incredibile eppure assolutamente logico. Questo ancora pressoché ignoto pittore veronese, infatti, è un tenace costruttore, fermo ragionatore della proporzione, che verifica con acribia l’ampiezza e la ripartizione dello spazio, il calibro del colore tenuto implacabilmente sotto controllo, l’esattezza strutturale delle forme. Ma è artista del visionario, del simbolico, e le cui immagini nulla hanno a vedere con la materialità del concreto; è un serafico stravagante poeta del silenzio (attitudine forse ereditata dal suo maestro Luigi Piccinato che lo avviò, diciottenne, alla prima mostra personale).
Questi spazi, percorsi da nebbie digradanti, che tracciano dolci correnti ondulari, intercorrono a settori incastrati come tessere di mosaico delimitate dalle linee che costruiscono le immagini.Simile procedura si direbbe frutto d’una pittura à plat, e pone la ricerca di Benini al limite tra figurazione e astrazione (direi meglio, per essere più precisi dei termini stucchevolmente idonei a stabilire una sorta di conflitto – peraltro inesistente- anche se si è voluto dibatterne per decenni, tra una pittura di finzione oggettuale, chiaroscurale, ed una tenuta all’autoreferenziale essenza delle sole indicazioni formali). Invece vi sono prospettive, annunci di esseri, paesaggi, atmosfere catturanti da sogno indistinto. Anche escludendo che Andrea Benini possa conoscerne l’opera – tanto è caduta nella dimenticanza la fama che gli arrisa in campo mondiale – invoglia a ricordare il gran pittore lituano Konstantinas Ciurlionis (1875-1911), predecessore dell’astrazione, del quale inconsapevolmente il giovane veronese ripercorre la peculiare delicatezza nel gusto tonale. Si tratta di grigi varianti, bruni cangianti, azzurri nebbiosi, condotti alla tenue scala delle minime differenze, appena evidenziati in minimo contrappunto da ridottissimi interventi con colori tratti dalla gamma calda. Una pittura nella quale, però, non si percepisce l’algore proprio a certe visioni oniriche d’ambito surreale con cui Benini non deve essere confrontato. Il suo è tutt’altro discorso.
Risulta evidente, credo, che pittura della levità, dell’esilità, della leggerezza, non sia la stessa cosa di pittura lieve, esile, leggera. Forse vale la pena sottolineare ciò ad evitare distorte attribuzioni di valore alla sua opera. Per esempio, in quanto concerne il colore, non è incertezza che lo induce alla scelta che osserviamo come un dato caratteristico; invece si tratta d’una dimostrazione d’abilità attentamente meditata. I toni sono raggiunti mediante plurime velature, cosicchè conservano, in trasparenza, la gradualità del consistere sensuale pittorico che viene dato. Le costruzioni formali sono ottenute attraverso una solida strutturazione e si basano su diagrammi, spesso eccentrici, a spirale, o diagonali in fuga verso un punto situato al di fuori dello spazio contemplato nel supporto dell’immagine la quale appare come vista attraverso una lente prismatica mitigante, che trasforma il raggio luminoso reale in una luce virtuale, senza che vada perduta la nitidezza della forma.
In queste immagini non vi sono ombre perché il sole è divenuto sterile. Bisogna trarne insegnamento; c’è un senso se la luce scompare anche nel sogno. Queste immagini sono come desideri di un altro mondo, una dimensione che forse appartiene al passato, ai desideri inavverati del tempo trascorso. Oppure si tratta forse d’una preghiera trepidante, in attesa d’altro.
Cerchiamone il significato. Dice il pittore Andrè Lhote, “La pittura non è stata inventata per giocare con le cose, ma per rappresentare i rapporti esatti che esistono tra di esse… Dipingo quello che è, dipingo le mie certezze morali”. Ma, come accadeva all’imprendibile macchina da scrivere di Alberto Savinio che battendo erroneamente, contro la volontà sua, una parola in luogo d’un’altra, facendo ai suoi discorsi un senso del tutto imprevedibile, anch’io debbo rispettare il volere assolutamente logico del caso poiché, nel trascrivere questa massima, l’erronea digitazione della tastiera ha fatto comparire “carezze”, anziché “certezze”. L’uomo contemporaneo non ha certezze; è sicuro solo del dubbio e dobbiamo consolarcene,Andrea Benini potrebbe dire, illustrando la propria arte: “dipingo le mie carezze morali”.